Arturo Diaconale dice la sua e, come spesso accade,  lo fa attraverso il suo taccuino biancoceleste  su Facebook.

«Cosa me lo fa fare“Ma chi te lo fa fare?”.

Molti amici mi rivolgono questa domanda registrando come il mio taccuino biancoceleste settimanale (e qualche volta anche bisettimanale) susciti non solo tante polemiche ma anche valanghe di insulti nei miei confronti lanciate sui social da tifosi di squadre diverse da quella di cui sono responsabile della comunicazione ed a cui ho consegnato il mio cuore fin da bambino.Bella domanda, visto che a chiedermi di lanciare provocazioni non è il Presidente Claudio Lotito, che, semmai, mi sollecita a non gettare benzina sui fuochi.

Perché lo faccio? Debbo questa risposta ai miei amici (ai miei famigliari un po’ preoccupati per il tono degli insulti) ed anche a tifosi biancocelesti di cui mi faccio Paladino non per obbligo professionale ma per mia scelta.

Sarebbe facile sostenere che a spingermi è la mia lazialità e l’ostilità nei confronti delle altre squadre antagoniste alla mia. Ma la verità è che la colpa è della mia storia professionale. Negli anni più formativi ho avuto la fortuna di lavorare nel giornale diretto da Indro Montanelli e di crescere nel rifiuto dell’omologazione, del conformismo e nel culto dell’opinione controcorrente.Da allora ad oggi sono passati tanti anni. Ma a quell’insegnamento montanelliano sono rimasto sempre fedele (non a caso sono stato direttore responsabile per quasi vent’anni de “L’Opinione” fissando una linea di liberalismo sempre e comunque controcorrente).

E tutti i libri che ho scritto non hanno mai derogato rispetto a questa scelta. Dai primi sulla libertà di stampa e su “Mani Pulite”, a quelli sul rischio dell’atomica iraniana su Israele al pericolo del neoperonismo in Italia, da quello sulle interpretazioni in chiave liberale della storia dello Stato unitario a quello sugli aspetti controversi del pontificato di Papa Francesco.

Potevo cambiare decidendo di scrivere non solo di storia e di politica ma anche di calcio? Non potevo. Tanto più che durante la mia esperienza ormai quadriennale nel mondo calcistico mi sono reso conto dell’esistenza di pregiudizi ingiustificati nei confronti della Lazio, del suo Presidente Claudio Lotito e dei suoi tifosi. 

Questi pregiudizi premono sulla mia coerenza controcorrente e mi impongono di intervenire con le mie armi professionali. Di qui le battaglie per difendere la stragrande maggioranza dei laziali da accuse frutto di prevenzioni antiche ed infondate.Le polemiche per spiegare che il legittimo interesse della Lazio a finire regolarmente il campionato non nasce dalla pretesa di vincere lo scudetto a tavolino, ma solo dalla speranza di poterlo conquistare sul campo e per rilevare come questo interesse abbia la stessa legittimità di quello di chi vorrebbe annullare il campionato in corso o per avere lo scudetto d’ufficio e potersi dedicare solo alla Champions o per evitare una rovinosa retrocessione.

Le polemiche nei confronti di un inconsapevole ministro che non conosce il ruolo del calcio nell’economia e nell’immaginario collettivo del Paese. Ma soprattutto le polemiche per interrompere quella vulgata politicamente corretta e frutto di interessi precisi che tende a dipingere sempre e comunque Lotito non come un imprenditore che ha costruito negli anni una società sana ed una squadra competitiva recuperandola da una condizione drammatica e fallimentare ma una sorta di diavolo del calcio nazionale che si permette di mettersi di traverso ai potenti per eredità, censo o grande presenza mediatica e che per questo va relegato nell’inferno fasullo ed ipocrita dei presunti cattivi.

Bastano queste ragioni? Per me sono più che sufficienti. Anche a non lasciarmi intimidire dalle aggressioni verbali a cui non replico per non trasformare in rissa una discussione che vorrei mantenere sempre ad un livello di totale civiltà».

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