Maurizio Sarri ha rilasciato una lunghissima intervista a RSI, un’emittente locale svizzera, dove ha parlato di tantissime cose….

«Un innamoramento avuto fin da piccolo. Penso che la passione nasca dallo sport di squadra e io lo ritengo totalmente uno sport di squadra. Anche se negli ultimi anni, a livello mediatico, si è dato molto più risalto alle individualità. È uno sport da organizzare, solamente il rugby credo abbia le stesse caratteristiche vista la grandezza del campo e il numero dei giocatori. Razionalizzare il movimento dei giocatori è sempre stata una grandissima passione. Mi sono divertito anche a giocare. Complicato? Apparentemente semplice: è semplice per i singoli, poi in realtà coordinare 11 giocatori su un terreno non è proprio semplicissimo.

Una cosa importante per dar vigore alle idee, poi se siamo capaci di giocare un calcio che è divertente per chi guarda alla fine può andarti male per qualche partita, ma non alla lunga. Nel breve periodo sono più importanti le prestazioni dei risultati.

Negli ultimi anni per vincere si deve andare in certe società: i giocatori di grandissimo livello possono fare – e fanno – ancora la differenza. Una volta le differenze economiche tra le squadre erano di qualche miliardo, adesso di qualche centinaio di milioni. Quindi è chiaro che alla fine questa disuguaglianza porta a vincere sempre le stesse squadre e questo si vede in un po’ tutti i campionati europei.

Io penso che i 90 minuti in campo siano una parodia della vita: ci sono momenti esaltanti, momenti difficili, momenti in cui puoi vincere o perdere. Come succede nell’arco della vita. Essere conoscenti delle storie di vita, ti aiuta anche nel calcio.

Nella lettura cerco piacere personale. Devo ringraziare i miei insegnanti, perché mi hanno permesso di fare percorsi anche diversi rispetto a quelli che si fanno normalmente a scuola. Io a scuola mi annoiavo un po’ e mi hanno permesso di leggere tantissime cose che mi piacevano. Mi sono appassionato così alla lettura, che è un momento di svago, ma anche di forte arricchimento. Penso mi serva anche per il lavoro, perché la facilità di linguaggio che ti dà leggere così tanto può essere incidente anche nella professione.

Il calcio ha bisogno di essere salvato da se stesso e dalle proprie istituzioni, si sta andando su una strada in cui è impossibile proporre la belelzza. Con 60/70 partite l’anno è chiaro che non ci si allena più e produrre uno spettacolo divertente è sempre più difficile. Siamo in una fase in cui questo sport è vissuto come business, mentre è diventato business quando era vissuto come uno sport.

Io a volte vedo partite della primavera, giocate in campi improbabili, con gli allenatori con la divisa sociale e mi scappa da ridere. Facciamo un lavoro da campo, non vedo che ci sia di strano andare in tuta. È la cosa più naturale del mondo. Quando lavoravo in finanza andavo in giacca e cravatta, ma in campo vado in tuta. La ritengo la cosa più naturale del mondo. Apparenza? Non è il calcio ad essere andato in quella direzione, ma il mondo. Purtroppo conta molto di più, ma è ridicolo.

I soldi nel calcio, come nella vita, ti aiutano. Poi la felicità è un’altra storia. Cifre immorali? Immorale è il mondo attuale sotto tanti punti di vista. Un attore che prende 30 milioni per un film è immorale, ma probabilmente il ritorno economico li giustifica. Io lo ritengo ingiusto, ma anche questo fa parte del mondo che viviamo attualmente. Il mio lavoro precedente? I manager che vedo nel calcio, in un’azienda normale, sarebbero licenziati dopo pochi mesi. Aver fatto parte di un altor mondo, dove ti devi scannare per aprirti una strada, aiuta sicuramente.

Sarrismo? Io cerco sempre di innescare un modo di giocare a calcio che ti porti ad avere il contatto con la palla molto spesso, che alla fine è il motivo per cui tutti noi abbiamo iniziato a giocare a calcio. Il rapporto palla-uomo è un rapporto eterno, ci dà sempre questo senso di divertimento e io cerco un modo che non lo spenga mai. Il Sarrismo nella Treccani? S’è perso tutti la testa!.

Ciclismo?
Cosa sceglierei tra la finale di Champions e Parigi-Roubaix? Sceglierei la Parigi-Roubaix tutta la vita. Il ciclismo è uno sport vero, anche lì ultimamente – pur essendo uno sport individuale – la squadra sta contando più dei singoli e i singoli forti sono 7/8, alla fine di questi viene fuori chi ha la squadra più forte. È uno sport duro, di grande fatica, occorre una passione veramente feroce. A differenza del calcio, i grandi stipendi sono per pochi corridori, il resto corrono per stipendi normali. Io ho un grandissimo rispetto per chi lo pratica e vederlo mi dà una grande soddisfazione. A parte il fatto che vengo da una famiglia di ciclisti.

Veniamo da una partita dove abbiamo vinto 4-0 in trasferta (contro la Fiorentina, ndr) e sono andato a letto inferocito. Penso sia giusto così, se ti dai un obiettivo facilmente fattibile ti accontenti troppo velocemente. L’obiettivo deve essere impossibile, un’utopia. Solo se è un’utopia vai sempre a letto con un leggero giramento e allora ti senti in obbligo di migliorare tutti i giorni.

La cultura italiana è una cultura particolare, basti pensare che facciamo più tifo contro che a favore e la dice lunga. In Inghilterra non l’ho visto. In Italia a livello culturale sportivo non siamo messi benissimo. Allenatore educatore? Parlare di educatore in questo mondo, ai nostri livelli, è difficile. Se parliamo ai livelli giovanili posso essere anche d’accordo. Noi abbiamo a che fare con aziende individuali, quasi tutte di fatturato più che milionario: è difficile diventare un educatore. Diciamo che si cerca di far passare dei messaggi e dei valori – perchè lo sport di squadra è fatto anche di questi – che possano accrescere il valore complessivo della squadra. Questa ricerca c’è completamente.

La più grande? Non c’è un episodio in particolare. L’errore che fa la gente è abbinare la mediaticità dell’evento a quello che l’evento rappresenta per te. Io potrei rispondere di un derby vinto in Serie C. Non sempre l’evento risponde ai tuoi sentimenti, alle tue delusioni o soddisfazioni.

CHI È MAURIZIO SARRI?
È uno che cerca tutti i giorni di migliorarsi. Mi danno dell’integralista, ma ho fatto tutti i moduli durante la mia carriera. Io integralista? Lo ritengo qualcosa di assolutamente non vero. Una definizione? Una trasformista: cerco di adattare le mie idee, alle quali non rinuncio assolutamente mai, alle caratteristiche dei giocatori di quel periodo».

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