Con il passare degli anni, la Lazio avrebbe dovuto imparare una grande lezione, ovvero quella di non perdere punti con le cosiddette “piccole” perché son quelli che fanno gruzzolo. Sono quelli che ti permettono poi le sconfitte indolore con le “big”.
Giochi un bel primo tempo, dimostri di avere le qualità e poi subentra il solito inspiegabile blackout, tutto ciò che di sbagliato si dovrebbe evitare, puntualmente lo si fa.
Il gap tra i capitolini ed i ferraresi era evidente, eppure…. Eppure il pallone lo hanno buttato dentro loro.
Giochi bene e poi perdi. Tallone d’Achille di Simone Inzaghi. Un controsenso che abbiamo imparato a conoscere negli anni, dovrebbe sempre essere la più forte a vincere, o no?
O no, proprio “o no”, poiché la storia racconta che il calcio è fatto di grandi imprese, grandi uomini con ancora più grandi attributi.
Una squadra ferma nel limbo, una che vince contro la Sampdoria e poi scaglia dalla Spal, una che vince la Coppa Italia ma poi arriva ottava.
Un controsenso vivente, un negare sé stessi continuo.
Il colpevole e senza essere “capo espiatorio” messo alla gogna perché non si trova un vero responsabile, di certo Simone Inzaghi. Ok, sono una convinta che oltre il 4-4-2 non esista il gioco del calcio, ma il modulo, salito più volte sul banco degli imputati, è stantio e fuori moda.
Il “mantra 3-5-2” adottato dal tecnico piacentino, fa acqua da tutte le parti, però sono 3 anni che viene propinato in campo. È talmente noioso che le avversarie giocano a specchio. Ha funzionato in un remoto passato, ha funzionato sì, però c’era un interprete che lo aveva reso congeniale: Felipe Anderson. Adesso Pipe non ci sta e con lui anche il modulo se n’è andato.
Neanche voglio buttare la croce su Patric, continuamente ammonito, non voglio trovare un capo espiatorio forzato, ma metto sotto la lente d’ingrandimento le scelte tecniche: se domenica è stato Gabarron, per un intero anno fu Marusic nonostante la presenza di Romulo.
Lulic non è più quello di una volta, ahinoi, regge un primo tempo, però poi appare visibilmente stanco. E se in panchina hai Jony, perché non farlo entrare? Lo dico sinceramente, mi sono un po’ rotta i co…Jony. (Se si conosce l’esatta pronuncia del suo nome, allora la battuta si può dire riuscita).
I cambi arrivano tardi quando la Lazio già annaspa, o peggio ancora, non arrivano proprio.
In tanti hanno criticato Vavro, io invece voglio spezzare una lancia: non è De Vrij, non lo diventerà mai, ma con lo slovacco al posto di Patric, il gioco difensivo era diventato “logico”, o almeno somigliava alla logica.
Inzaghi corre dietro alle gerarchie, sudditanza per il nome dietro la maglia e lo dimostra l’uscita di Caicedo, meno meritevole della panchina rispetto ad Immobile. In tantissimi, basta vedere i commenti che hanno intasato la pagina Instagram della Lazio, si sono chiesti il perché dello sfavore verso Felipao.
“Non siamo una grande squadra”, non mi chiamate “gufa”, lo ha detto Simone Inzaghi nel post gara. Ma scusi mister, non era stato lei il primo a gridare ai quattro venti che sarebbe andato via se il mercato non fosse stato soddisfacente?
L’ennesimo proclama stridente, una squadra da grandi ambizioni non va in tilt a Ferrara.
Siamo a settembre, non parliamo di stanchezza, vi prego. A marzo allora? Di cosa parleremo?
Debacle che non servono, non servono a suonare una qualche sveglia biologica, una carica par agguantare l’obiettivo prefissato.
Siamo solo alla terza giornata, qualcuno si batte la mano sul petto, ma non fa che peggiorare il pensiero in quanto il copione è già lo stesso e siamo all’inizio.
Dite di Lulic, Parolo e Radu che sono bolliti, lessi, scarsi. Ma il cuore e le palle in campo, non si insegnano a scuola calcio, non si comprano coi milioni, non le hai solo se ti chiami Messi. Ma datemi una squadra fatta solo di Lulic, Parolo e Radu. Non arrivo quarta e forse non ci combino nemmeno nulla, ma almeno non mi inc****o