“I’m football Crazy”.
Icona immortale di una Lazio divisa tra le partitelle a Tor Di Quinto, le pistole, una banda di pazzi che assaporò la felicità capendo che è solo un pallativo, una banda di pazzi che conquistò il mondo.
Chissà se prima che il cuore lo tradisse pensò alla sua Lazio.
Era il primo aprile e poteva starci magari uno scherzo di qualcuno appartenente alla sponda giallorossa del Tevere. Ma era il primo aprile del 2012, Giorgio Chinaglia se ne era andato per davvero.
“E ‘morto Giorgione!”.
Raramente ricordo mio padre così, occhi bassi, voce mesta.
Stupido piangere per un calciatore se ci si pensa su, per uno che non hai mai toccato, con cui non hai mai fatto un miliardo di piccole cose normali. Ma sapete che c’è, Chinaglia è entrato nelle nostre case, ha portato i tifosi allo stadio, calciatore, presidente…. L’1 Aprile del 2012 è morto un pezzo della lazialita’ stessa.
E lo dico senza esagerazione alcuna.
E lo dico mentre lo sguardo cade distrattamente sulla sciarpa della Lazio che sta buttata qui, sul mio PC.
Questo più di ogni altra parola, è il senso profondo di ciò che “Football Crazy” ha significato e significa ancora; quando lui vestì la maglia biancoceleste, non ero nemmeno nata eppure è come se parlassi di un calciatore che mi appartiene.
Allora mi commuovo davanti ad un filmato su YouTube.
Perché quella Lazio non è stata solamente quella dei nostri padri, è anche nostra e sarà quella dei nostri figli.
Giorgione giocava per lei.
Scappava, tornava, dalla Lazio non poteva disintossicarsene poiché se ne era ammalato inguaribilmente.
Tornava sempre dalla Lazio che era la sua America.
Ce l’ha fatta sempre a ritornare. L’ultimo suo ritorno a Roma fu nel 2013, il ritorno quello vero quello da cui non si può più andar via, quando i compagni di squadra lo riuniscono a Tommaso Maestrelli nel cimitero di Prima Porta.
Di Chinaglia si ricordano tantissime cose, umanità sì, ma anche l’arroganza che non è poi troppo difetto.
In un mondo come quello del pallone,negli anni duri che furono, quella testa tra le spalle rischiavi di abbassarla. Rischiavi di rimanere uno nella massa.
Se ti chiamavi Chinaglia però, la alzavi ed iniziavi a fare lo spaccone, a puntare il dito verso la Curva avversaria, ad avere l’atteggiamento del migliore; forse fu così che un ragazzino divenne col tempo un uomo “arrogante”.
C’è ancora in un vecchio album di figurine, quella di un ragazzone in maglia biancoceleste. Con lo sguardo forse malinconico e la strafottenza che lui stesso portò come un’etichetta di marca cucita su un bel vestito.
La figurina di un ragazzetto che voleva vincere e vinse. Ed ecco perché arroganza non ha una collocazione universalmente negativa.
Il suo nome non è legato solamente alla Lazio.
Nel 1972, protagonista indiscusso indiscusso della squadra capitolina, il centravanti di Carrara vinse il titolo di capocannoniere grazie alla realizzazione di 21 reti e si guadagnò così la convocazione del ct italiano.
Chinaglia esordì con la maglia della Nazionale scrivendo un record storico: l’Italia pareggiò al 50’ contro la Bulgaria proprio grazie a Chinaglia che mise a segno il primo gol all’esordio di un calciatore che giocava in Serie B.
Una vita costruita su un continuo andirivieni, scappava lontano e poi tornava.
Cercò fortuna altrove, ma non trovava pace, tornava ossessivamente, compulsivamente, continuamente.
Ogni uscita di scena preparava tutti ad un ritorno con la fanfara, in grande stile.
Ogni saluto era un chiaro messaggio: “Aspettatemi”.
In America, aveva 36 anni, ascoltò un disastroso risultato Milan-Lazio, serie B. Era il 1983 e lui tornò con la fanfara ancora più assordante al seguito: tornò da presidente.
Seguiranno poi fatti….Abituati come siamo oggi a robe fraudolente, club indagati, magagne ovunque, qui racconteremo solo di Long John. Perché ve n’è già a sufficienza, tra fughe, dita puntate e pure qualche colpo di pistola.
La sua vita comunque la si voglia leggere, anche nei capitoli bui, anche nella dissacrazione dell’immagine stessa del “mito”, non ha mai perso l’attrazione magnetica dell’icona intramontabile.
L’ inno di un popolo che l’ha sempre trascinato oltre, oltre il torto o la ragione.
Ha sbagliato, ha riposto fiducia in contatti sbagliati, ma ha sempre fatto ciò in suo potere per ricompattare l’ambiente e mai per dividerlo. Il laziale non dimentica che fu proprio Long John a cambiarne la mentalità, il tifo con i suoi estremismi e le sue fragilità.
Giorgione la Lazio l’ha fatta rispettare!
Football Crazy che non contemplava la parola “sconfitta”, “rimonta” semmai.
Ancora sia forte quel grido di battaglia che fa rima con Chinaglia, quel nome che echeggiava tra gli spalti e ne diventava lo striscione perfetto.
Dirompente, così com’era in campo.
Si dice: “un giocatore muore due volte, la prima quando smette di giocare”, mi piace pensare che “Football Crazy” se ne stia ancora a Tor Di Quinto, tra avventure piratesche e colpi di pistola.
Se volete far capire a qualcuno cos’è la Lazio, raccontategli di Giorgio Chinaglia!