Alessandro Nesta oggi spenge 44 candeline. Non è facile raccontare di quel trasferimento a Milano e delle polemiche seguite per anni sino ad una verità svelata solamente quando disse addio al calcio giocato. Perché lui, al contrario di molti, non stava lì a sbraitare cose additando altri per salvarsi la faccia.
“Un signore”, forse ecco l’aggettivo che più gli si cuce addosso come un abito da sartoria ben confezionato.
E per un laziale non è facile raccontare di lui, raccontarlo soprattutto a coloro che non hanno mai visto giocare dal vivo il vero numero 13 biancoceleste.
Maglia un po’ bistrattata nel tempo a seguire, lo stesso numero lo indossarono addirittura Bisevac e Wallace.
Sono cresciuta nel periodo storico del dualismo Totti/Nesta, entrambi giovani, romani e giocatori iconici delle due opposte fazioni del Tevere. Simboli di un calcio romantico per eccellenza, di anni dove hanno sventolato forse le ultime vere bandiere.
“Capitani” della propria squadra del cuore, ragazzini cresciuti col pallone tra i piedi che, non solo ce l’avevano fatta, ma erano addirittura andati oltre il sogno.
Tutti sanno che Alessandro Nesta faceva di mestiere il difensore, un ruolo spesso grezzo, ma in lui si sposava bene il concetto di “coprire a tutti i costi” con la classe, nel senso più stretto del termine.
Il mondo aveva visto finalmente l’eleganza abbinata alla cattiveria agonistica.
Sin dal suo esordio in Serie A, si era capito che quello sbarbatello sarebbe diventato un campione ed i tanti ragazzini che sognavano una 10 sulle spalle, o che avrebbero voluto un giorno chiamarsi “bomber”, improvvisamente volevano fare i “difensori”.
Alessio Romagnoli, ma non solo, perché l’ex capitano laziale ne ha avuti e ne ha ancora molti di estimatori che scelgono appunto la 13.
Uno di questi fu Davide Astori, era solito indossare proprio quel numero sulla maglia in virtù della sua ammirazione per Nesta.
Non è difficile capire perché Alessandro portò in auge il mestiere di “difensore”, riscrisse completamente il ruolo, lo innalzò, ne divenne un simbolo inarrivabile.
Quando si parla dei migliori giocatori di sempre in retroguardia, il giudizio su di lui è unanime: il più forte di tutti ed il resto è noia.
Testa alta e palla al piede. Nell’immaginario degli appassionati di calcio, addetti ai lavori, tifosi, è uno dei centrali più forti dell’epoca a cavallo tra la fine del 1900 e l’inizio degli anni 2000.
Ha ricevuto diversi attestati anche a livello internazionale e, ancora oggi, non ha trovato un “erede”.
Emblema di un giocatore che tutti vorrebbero nella propria squadra, uno che non è mai passato di moda. L’ imparagonabile, l’inarrivabile… Ditemi dove hanno messo lo stampino!
Diventò capitano di una squadra fortissima nonostante la giovane età. E questo non è da tutti.
Romano, laziale e con la fascia al braccio.
Ma Nesta è stato soprattutto l’anello di congiunzione tra una Lazio “povera” e l’epoca “faraonica” di Sergio Cragnotti.
Il campione della porta accanto, poco avvezzo alle copertine patinate, poco avvezzo al proclama, insomma, “signorilità” allo stato puro dentro e fuori dal campo.
Nessun avversario faceva paura perché c’era Nesta e chi c’aveva Nesta nun tremava.
Peccato che dopo di lui buttarono lo stampino e difensori così in giro non se ne vedono. Nemmeno quelli che pensiamo siano i più forti del mondo tipo Sergio Ramos, perché se Alessandro aveva un altro pregio tra mille, era sicuramente preferire la giocata allo scontro fisico.
Non furono solo rose e fiori però, come in ogni favola che si rispetti, arrivò il finale.
Al contrario delle favole, questo epilogo fu amaro e non comprese il “vissero felici e contenti”.
Qualcuno lo accusò di essere un mercenario come tanti, ma la scelta di abbandonare la Lazio, una scelta sofferta da parte del capitano, fu solamente figlia della necessità di assicurare un futuro alla stessa Lazio.
Da apprezzare ancor di più l’ elegante silenzio senza gridare un’arringa difensiva di sé stesso, accettò i fischi dell’Olimpico quando tornò con la maglia del Milan, l’avversione di quegli stessi tifosi che lo avevano amato da morire.
Nesta parlò solamente a carriera conclusa.
Il suo fu l’ addio più traumatico per un’intera generazione di laziali, di chi ora ha 40 o 30 anni.
Per quella generazione, che è anche la mia, è il diamante più bello ed è difficilissimo spiegare quanto fece male la sua partenza, soprattutto ai ragazzini che nel calcio moderno sono abituati a file di mercenari.
Ne arriva uno, giura amore eterno, se ne va e sotto a chi tocca. Le squadre diventano stazioni e le bandiere muoiono.
Difficile dunque spiegare anche perché, parecchie volte, un capitano non finisce mai.
Era l’ agosto del 2002 quando venne ufficializzato il passaggio dalla Lazio al Milan.
Eh no, a volte un capitano non finisce mai.
Adesso Nesta sta meditando il suo ritorno in Serie A, scarpini appesi al chiodo, tenta la scalata come “capitano in panchina”.
Dalla lontana Miami, eccolo di nuovo nel Belpaese e nel maggio 2018 divenne l’allenatore del Perugia.
Il 19 giugno 2019 fu presentato ufficialmente presso la sala stampa dello stadio Benito Stirpe come nuovo tecnico del Frosinone.
E chissà se prima o poi….quella generazione, anche mia, che lo ha rimpianto per tanto tempo e si emoziona ad ogni suo parlare della Lazio, riabbraccerà il suo capitano dopo quasi 20 anni.
Chissà quando Alessandro super Nesta, promosso in Serie A, tornerà finalmente all’Olimpico davanti al suo popolo, da avversario ma senza fischi, per quel lungo abbraccio rimasto sospeso nel tempo da quasi 20 anni.